La storia di Don P.
Sulla mensola in alto a destra tengo tutti i ricordi che mi portano gli amici dai loro viaggi.
Ho una palla di neve con dentro la torre di Pisa, anche se non ricordo l'ultima volta che ha nevicato
a Pisa.
Ho una tazza con scritto I LOVE AMSTERDAM – Made in China.
Ho un libro su come si fanno le candele in casa, ma scritto in russo.
Un portacoso – bomboniera del matrimonio del cugino di qualcuno.
Un nano con un naso enorme che dovrebbe portare fortuna.
E poi nella mensola accanto ho tutti i simboli religiosi mischiati insieme.
Un crocifisso, un budda, un tao, una stella di david e altre figure che non ricordo ma che hanno un
significato ben preciso.
Mi piace tenerli tutti insieme perchè credo nel credere.
Credo che tutti debbano credere in qualcosa, anche credere in niente è comunque un credere in
qualcosa.
E tenerli tutti insieme vuol dire che qui al Bar Papà tutti possono parlare di tutto, politica, religione
e anche di calcio!
Mentre spolvero la coppa per il quarto posto al torneo di scopone scientifico che mi hanno regalato i
fratelli Governale, entra un uomo vestito tutto di nero.
Un bell'uomo, giovane e cordiale.
Pantalone nero, camicia nera, giacca nera.
Sorriso solare.
Entra con una culletta, bianca.
Dietro di lui, un fascio di luce riempie il bar.
Si siede al bancone e ordina un analcolico.
“Bel posto qui”
“Grazie, sto cercando di tirarlo su con quel che ho, anche se non è facile.”
“Padre Pio diceva “Dio sa mescolare il dolce con l’amaro e converte in premio eterno le pene
transitorie della vita”.
Ecco chi sembra.
Sembra un prete.
“Sembro un prete, vero?”
Un prete che legge nella mente!
“Veramente un pochino si”
“Sai perchè?”
“No”
“Perchè lo sono stato”
Anche le statuette sulla mensola si sporgono per guardare quel uomo solare vestito di nero.
Attimo di pausa.
Prendo una birra e mi siedo.
“Fin da piccolo quando chiedevano ai miei compagni di classe cosa volessero fare da grandi, tutti
rispondevano il calciatore, l'astronauta, il poliziotto… io volevo fare il sociologo”
“Tu da piccolo sapevi la parola sociologo?”
“Beh, non il termine tecnico, ma sapevo che volevo studiare gli altri, capire i fenomeni della gente,
parlare con loro, ascoltarli. A 18 anni mi sono convinto di voler diventare prete”
Altra pausa, altro sorso di birra.
“Ho fatto tutto il percorso canonico. Non facile, per niente. Una scelta difficile che però sapevo
essere quella giusta. Dopo tre anni finalmente ho preso gli abiti.”
Non mi ero mai posto il problema di come si diventasse prete.
Pensavo ci fosse una chiamata, o così dicono, e da quel momento si diventasse preti.
Studi la bibbia, il vangelo, poi parti da chirichetto e sali di livello.
“Sono andato nel mio paese, piccolo ma con una chiesa meravigliosa. Mi sentivo veramente a casa.
Ricordo ancora la prima volta li, la mia prima messa. Ero talmente emozionato che per poco non
crollavo sull’altare. Ma mi sentivo sorretto. Sorretto dalla madre chiesa, dalle persone davanti a me
che stavano ascoltando le mie parole, dalle parole stesse che venivano da tempi lontani.
Credo di essere veramente nato una seconda volta.”
“E poi?”
“E poi è arrivata lei.”
Si ferma e vedo che sorride, ma non con la bocca, con l’angolo degli occhi.
E incredibilmente non è più vestito di nero, sembra di mille colori, un arcobaleno di luce che si
concentra sulle sue labbra.
“All’inizio non l’avevo neanche vista. Veniva ad aiutare in canonica. Non c’è stato un colpo di
fulmine o cose da film. Ma è come se la prima volta avesse messo una bomba a tempo sotto la mia
sedia. E quando è esplosa, neanche ce ne siamo accorti.”
Dovrei essere imbarazzato da queste confessioni, ma in questo momento mi sento quasi io il prete
che sta ascoltando e la sua voce calma ma emozionata mi lascia senza parole.
“Lei mi guarda e mi dice: Che pensi? E io rispondo: Penso che quando mi sorridi mi si fa
primavera. E da quel momento si è aperto il baratro sotto di me.
Ho letteralmente fatto a cazzotti con Dio, abbiamo discusso, parlato, combattuto.
Ne ho parlato con la mia famiglia, sia quella biologica che quella spirituale. Ho trovato tanto
conforto, sono stato capito e supportato. Per tre anni mi sono chiuso in un convento per pensare.”
“Tre anni? E lei che ha fatto?”
Sapevo la risposta, ma ero comunque in tensione per ascoltarla.
“Lei mi ha aspettato. Tre anni ad aspettare una risposta. E alla fine ho trovato le parole per dirlo.”
La bambina piange, lui si alza e la va a cullare, cantando una ninna nanna sottovoce.
Io mi fermo a guardarlo, vedo dietro le sue spalle la forza di due scelte, la prima è quella di entrare
in chiesa, la seconda di uscirne.
Vedo il coraggio di sapere ciò che si vuole.
Di prendere il tempo per capire.
E di decidere cosa sia giusto da fare.
Nessuno ha la verità in tasca, ma a volte il cuore e la testa ne sanno più di tutte le parole scritte su
un libro antico.
“E poi è nata lei. Si chiama Celeste Grazia. Celeste come una sferzata di colore nel cielo. E Grazia
come il dono che Dio ci ha dato. È come se avesse dato il suo segno positivo a questa storia. Sono
nato per la terza volta, mi sento un uomo tremendamente fortunato.”
Faccio un cenno con la testa, come per determinare chiusa questa confessione.
Ci alziamo e gli stringo la mano.
Esce portandosi via il fascio di luce con cui è entrato, quella calma serafica delle sue parole, la
lentezza rilassante dei suoi gesti.
Ma lascia qui un pensiero: quanto coraggio ci vuole ad essere felici?
Quanta forza serve per non lasciarsi andare alle scelte che pensiamo definitive?
Molte volte ci sentiamo vincolati dal pregiudizio, dal cosa diranno gli altri, dai sensi di colpa.
E lasciamo andare l’amore, quello vero, perchè abbiamo paura di cambiare.
E se invece dall’altra parte del burrone ci fosse un mondo ancora più bello?
Se fare quel passo volesse dire finalmente vivere?
Squilla il telefono.
Guardo il nome.
È lei.
E mi si fa subito primavera.
Tratto dal libro Bar Papà
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