Dopo aver brillantemente superato la prova “campeggio con tenda e bambina senza pannolino al seguito”,
il mio ego ed io abbiamo deciso che potevamo osare ancora di più. Così quando qualche giorno prima del
mio “weekend con” alcuni amici mi hanno detto che sarebbero andati a trovare il famoso “pastore
Matteo”, e che volendo ci sarebbe stato posto per la notte anche per me ed F, ho fatto ciò che non
dovrebbe fare un buon cristiano e sono caduto in tentazione.
Il “pastore Matteo”, che non è un predicatore dello Utah, è un ragazzo che anni fa ha deciso di cambiare
vita e trasferirsi sulle montagne sopra il Lago Maggiore, dove ha messo in funzione e fatto rinascere un
vecchio alpeggio abbandonato. Essendo un luogo isolato, raggiungibile solo a piedi per ad un sentiero di
circa un’ora e mezza, sua moglie e le loro tre figlie vivono a valle, raggiungendo il papà nei weekend e
durante le vacanze. Spesso quando salgono si mischiano ad amici e non, che di tanto in tanto salgono a
salutare Matteo, e a dargli una mano nelle sue faccende. Nell’alpeggio, dove vengono allevate capre per la
produzione di formaggi, la vita è come deve essere: magnificamente spartana, e totalmente in simbiosi con
la natura. Chi passa da qui trova sempre ospitalità, ottimi formaggi, e un letto per passare la notte. In
cambio, si aiuta Matteo a mandare avanti la sua attività, e ad alimentare questa bellissima favola fuori dal
tempo. Ciò che avrebbe potuto rappresentare il problema principale di questa esperienza, era dovuto al
fatto che io, l’ultima volta che ho camminato più di un’ora, è stata quella volta in cui sono rimasto a piedi
col motorino. Anno di gloria 1997. E questa volta avrei dovuto camminare per “ben” un’ora e mezza, in
salita, e con due zaini. Uno davanti con i sacchi a pelo, acqua e qualche cambio.
L’altro dietro, con un passeggero alto qualche decina di centimetri e di un peso al limite della portata indicata sull’etichetta. Il
tutto, per un piccolo sentiero che si inerpicava nel bosco, e da soli, dato che i miei amici erano lì già dalla
sera prima. Ad ogni modo, ero tranquillo. Il tempo era buono, e tutto sommato una base di allenamento
fisico ce l’avevo. Ma poi, soprattutto, l’amico che mi aveva invitato mi aveva rassicurato, dicendomi che si
sale tranquillamente, e sicuramente anche in meno di un’ora e mezza. Quindi, ero in una botte di ferro.
E niente. Eravamo partiti da un quarto d’ora. Fino a lì eccitazione massima, e tanta voglia di raggiungere la
cima il prima possibile. Lo splendido sentiero che ci aveva prima fatto attraversare un piccolo borgo di case
in pietra, ci aveva da poco condotto in un magnifico bosco di castagni. La piccola strada asfaltata si era
trasformata in sterrata prima, e in mulattiera poi. Una dolce discesa ci ha accompagnato fra alberi
imponenti, interrotta qui e là da piccoli ruscelli e ponti fiabeschi. Io e la mia autostima passeggiavamo
sereni, quando il cammino ci ha regalato lei: una splendida chiesetta di pietra adagiata in una radura; al
centro un castagno maestoso, che custodiva una piccola fontana. Ci siamo fermati e abbiamo riso. Poi
abbiamo riempito le borracce (lei, meno pigra di me, ha voluto riempire d’acqua anche i suoi pantaloni, le
mutande, le calze e le scarpe. Che bella cosa). Ripreso il viaggio, il cartello mi indicava ancora 1h. Cosa
saranno mai, pensavo. Non avevo però considerato che se devi percorrere un sentiero 1h che sale su
una montagna, e i primi quindici minuti sono in discesa, o hai sbagliato strada oppure prima o poi li ricaghi
tutti, quei fottuti quindici minuti di discesa. Ma soprattutto, non avevo considerato che chi mi aveva
rassicurato, dicendomi che sarebbe stata un’ora e mezza di passeggiata comoda (“ma secondo me anche
meno” cit.), era un cazzo di boy-scout. Quei personaggi ambigui che di tanto in tanto appaiono in massa
all’improvviso la domenica mattina, vanno in giro in pantaloni corti anche di inverno, cantano le canzoni del
Signore e copulano più che in un set di un film porno.
Resoconto della salita. Dal vangelo secondo Paolo Villaggio. Sulla salitella, nominata poi tragicamente cima
del diavolo, furono colti dai primi impercettibili sintomi di fatica: asfissia, occhi pallati, arresti cardiaci,
lingue felpate, aurore boreali e miraggi. Nonostante ciò, ho ancora qualche vago ricordo di quel giorno.
Oltre ad aver fatto una delle più grandi sudate della mia vita, ricordo dei leggeri ma fastidiosi schiaffi sulla
testa che F mi tirava nei momenti di noia. Ricordo di quando abbiamo cantato i Watussi. Ricordo svariate
punture di insetti, di diverse specie e dimensioni. Ma soprattutto, ricordo che quella salita è stata il
momento storico in cui ho detto a mia figlia il mio primo “vaffanculo”; questo quando lei (sì lei, quella nello
zaino) ha detto a me (sì a me, quello che camminava) di fermarmi perché era stanca. Comunque, dovesse la
memoria perdere questi ricordi, mi rimane una foto della mia faccia scattata non so da chi appena sono
arrivato in cima, ma che per difendere la mia dignità non farò vedere nemmeno a mia figlia, almeno fino a
che non sarà abbastanza grande da avere un mutuo tutto suo.
Fortunatamente, a me è bastata una birra di benvenuto per far dimenticare presto la stanchezza. E ad F è
bastato incontrare le figlie di Matteo, per realizzare che durante il weekend avrebbe potuto interagire
anche con qualcuno senza la barba. E così fra birre, chiacchiere e giri in altalena, il pomeriggio si è
trasformato in sera. Che a sua volta, fra il fuoco di un vecchio forno a legna, qualche pizza fatta al momento
ed il ricordo ancora vivo di uno splendido tramonto, si è diventata notte.
La mattina seguente, siamo stati svegliati di buon’ora per la mungitura delle capre. Veloce lavata di faccia,
passaggio in cucina a recuperare una tazza, e via diretti in stalla. Un attimo dopo, ero seduto su un piccolo
sgabello con la faccia a dieci centimetri dal culo di una capra camosciata. Ma riempire quella tazza di latte e
poi passarla nelle mani di mia figlia, che intanto osservava curiosa rimanendo attaccata alla mia gamba, è il
sicuramente il ricordo più bello legato a quella splendida esperienza. Nell’alpeggio, le ore che separano la
colazione dal pranzo, dopo il quale saremmo riscesi a valle, sono il momento in cui si dà una mano a
Matteo. Piccolo briefing per la suddivisione dei compiti, e si comincia. Scartate le opzioni “tagliare l’erba
con la falce” -per preservare l’incolumità di mia figlia- e “portare il fieno nella stalla dei capretti col forcone”
-per preservare l’incolumità dei capretti- abbiamo optato per la cosa meno pericolosa: “pulire il piazzale
delle capre con la scopa”. Una ramazza a testa (la sua alta il doppio di lei) e via; ad imparare che una
mattinata di merda, alcune volte, non è una cosa così brutta come potrebbe sembrare.
Dal libro “Papà Travel Experience”
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